TAVOLA ROTONDA: MANI ALZATE: QUALI DOMANDE, QUALI RISPOSTE DAGLI UOMINI E DALLE DONNE
Tavola rotonda del 7 novembre 2017
La violenza sulle donne è un problema che riguarda le donne, ma parte dagli uomini e si può affrontare solo unendo le forze. Ha radici culturali, tanto da attraversare indistintamente tutte le classi sociali, per questo diventa importante mettere in rete le competenze e le conoscenze di tutti i soggetti coinvolti. Bisogna lavorare sugli uomini, per condurli a riconoscere e rispettare la donna come soggetto di diritti paritetici; bisogna lavorare sulle donne, per rinforzarle nel proprio percorso di emancipazione, che è un diritto e non una concessione. In che modo? Fino a che punto è possibile il dialogo fra vittime e carnefici?
In questa giornata ne abbiamo parlato con esperti ed esperte del tema della violenza a vari livelli: Andrea Bernetti Rappresentante del CAM- Centro Uomini Maltrattanti, Stefano Ciccone- Rappresentante dell’Associazione Maschile Plurale, Maddalena Cialdella- Membro dell’Associazione AERES, Simona Lanzoni- Rappresentante di Pangea Onlus e Membro di GREVIO. Ha attivato la tavola rotonda Luisa Betti Dakli -giornalista esperta di diritti umani.
Luisa Betti Dakli
E’ interessante il titolo quali risposte danno gli uomini e le donne perché noi sappiamo che ci sono donne che denunciano, ma ci sono soprattutto gli uomini che sono i protagonisti di questa storia. Quando parliamo di violenza sulle donne stiamo sempre molto sulle donne, meno su quello che riguarda gli uomini, anche con un occhio che può essere stereotipato: la donna vittima, l’uomo persecutore.
Quando invece vediamo che le donne che subiscono violenza hanno una forza straordinaria perché riescono ad affrontare la violenza anche dopo tantissimo tempo. Vorremmo rimettere questa dinamica all’attenzione, dicendo che ci sono sì le vittime di violenza ma questa è una realtà molto vicina a noi, che fa parte del quotidiano, dove ci sono uomini e donne che vivono e si relazionano. Ecco, dovremmo concentrarci su un nuovo modo di relazionarsi tra uomini e donne, e su un piano che esca da questo stereotipo.
Andrea Bernetti, responsabile centro uomini maltrattanti di Roma, le chiedo: Perché è cosi importante andare a lavorare con gli uomini maltrattanti?
Andrea Bernetti- CAM, Centro Uomini Maltrattanti
È importantissimo lavorare con gli uomini che hanno commesso violenza perché credo che la cosa importante sia sviluppare la prevenzione in contrasto alla violenza, e lavorare con gli uomini fa parte di un’azione preventiva. Bisogna uscire da una logica emergenziale, dobbiamo andare oltre.
Il nostro auspicio è di agganciare quegli uomini che avvertono l’esigenza di modificare qualcosa perché hanno sperimentato una difficoltà nella relazione di coppia che li ha portati ad agire una violenza. Si tratta di arrivare il prima possibile, ci sono anche persone che hanno fatto cose gravi, che sono state in carcere o che hanno subito una denuncia. Anche in questi casi si tratta di un’azione preventiva, come sono azioni preventive il lavoro con le scuole, il lavoro con i bambini, il lavoro con le donne, e il lavoro culturale.
Poi penso che se manca uno spazio, se non c’è un percorso strutturato per gli uomini che agiscono violenza, sta a significare che quel problema è un problema non accettato dalla società, e in un certo modo giustificato. Se una società non si pone l’obiettivo di promuovere e sostenere un cambiamento vuol dire che pensa che quel cambiamento non sia possibile, avalla quel comportamento. Manca una presa di responsabilità sociale anche da parte delle Istituzioni rispetto a questo problema. Essere presenti sul territorio significa garantire a quegli uomini che quel problema che stanno vivendo è un problema reale, che esiste ed è conosciuto e che, anche se non è accettato si può affrontare. Se non c’è uno spazio di presa in carico di questa situazione vuol dire che non è accettata e che non si può cambiare. Centri per gli uomini in Italia non ce ne sono, sono pochissimi e si concentrano nel Nord e Centro Italia. Da Roma in giù non c’è nulla, ma anche a Roma si potrebbe fare di più. Ci sono progetti che iniziano e finiscono, si tratta di piccole realtà che cercano di portare avanti delle azioni ma manca il sostegno istituzionale, mancano i finanziamenti.
Stefano Ciccone- Associazione Maschile plurale
Di fronte alla violenza ogni uomo deve fare un’assunzione di responsabilità, ma dobbiamo soffermarci su come questa consapevolezza degli uomini a livello individuale possa assumere una dimensione sociale. Oggi, purtroppo sono pochi gli spazi sociali in cui gli uomini si possano mettere in discussione.
Il lavoro della nostra associazione evidenzia come quello della violenza sia un fenomeno diffuso, pervasivo. Il caso delle molestie e dei ricatti sessuali nel mondo cinematografico si è riversato sui social e ci ha fatto comprendere quanto questo fenomeno sia diffuso nella nostra quotidianità. Non guardiamo la singola violenza e che spesso viene spettacolarizzata, parliamo di violenza diffusa: molestie sul lavoro, violenza in famiglia, controllo quotidiano, condizionamenti della libertà della compagna, non accettare la separazione, persecuzione…
Se questo è il ventaglio, questo ventaglio riguarda tutti, tutti siamo immersi in questo fenomeno, e il problema è mettere in discussione le radici culturali.
Nell’immaginario comune c’è ancora un’idea confusa dell’amore che oscilla tra controllo, esercizio di potere, protezione. Oppure si pensa che l’amore sia una catena o un universo compiuto che quando finisce non ha più senso vivere, il mito dell’amore romantico , basato sulla complementarietà e e incapace di tenere in conto l’autonomia e l’individualità si intreccia troppo spesso con la morte. Il gioco delle parti tra i sessi dice agli uomini che il rifiuto di una donna può essere considerato come un falso rifiuto, anzi come qualcosa che giustifica che forzino quella donna.
Oggi si parla della violenza molto più di prima ma se ne parla come fenomeno meramente criminale, di ordine pubblico, e questo porta ciascuno di noi a non metterci in discussione. Invece bisogna fare un lavoro per cambiare la cultura diffusa.
Su questo vedo delle ambiguità, come l’idea che gli uomini debbano essere i salvatori delle donne, cavalieri che omaggiano le donne. Questo sostiene il ruolo maschile anziché metterlo in discussione.
Il tema fondamentale è provare a parlarne agli uomini.
Il primo grande tema è che la società, i media, il senso comune continuano a raccontare il cambiamento della relazione uomini e donne come una minaccia per gli uomini. Gli uomini, in crisi, depressi soggetti a questa narrazione che racconta di una guerra contro gli uomini, contro i comportamenti maschili.
Su questo dobbiamo fare un salto in più. Quando mettiamo in discussione i ruoli di genere, non dobbiamo cadere in un discorso perbenista, “politicamente corretto” oppure un discorso contro gli uomini.
Dobbiamo provare a smontare questo luogo comune, fare percepire questo lavoro come qualcosa che parli della libertà, degli uomini e delle donne.
La sfida è dunque provare a parlare agli uomini e ai ragazzi ribaltando i luoghi comuni. Noi lavoriamo anche molto nelle scuole, ma stiamo attenti a due trappole: spesso siamo percepiti come quelli che impongono delle regole anziché mettere in discussione dei modelli stereotipati.
La scelta, giusta e necessaria di lavorare nelle scuole non deve però rischiare di far passare l’idea che si possano cambiare le generazioni successive senza agire un conflitto e un cambiamento nel qui ed ora.
Combattere la violenza significa combattere una cultura diffusa e significa agire un conflitto nella società. Non è e non potrà mai essere una questione pacifica perché significa condurre una battaglia per abbattere gli stereotipi, per cambiare ruoli, modelli e valori nei rapporti tra i sessi e nell’organizzazione della società.
Luisa Betti Dakli
Ci dici che l’obiettivo è smontare uno stereotipo, una connotazione maschile in una società ancora molto maschile, dove le donne vivono di fatto una discriminazione, dove la parola di una donna non vale come quella di un uomo. Quanto è difficile in un contesto del genere smontare questa ambivalenza? per l’uomo quanto è difficile trovare un nuovo ruolo nella società e un nuovo modo di rapportarsi con le donne?
Stefano Ciccone
È molto difficile perché gli stereotipi sono molto radicati. Ad esempio, pensiamo alle donne che da sempre sono destinate al lavoro di cura. Su questo si produce a priori una discriminazione contro le donne perché la donna è colei che in caso di gravidanza si assenta dal lavoro e dovrà occuparsi della gestione dei figli. I padri possono pensare che questo stereotipo si rivolge anche contro di loro: quel pregiudizio che discrimina le donne in caso si debba discutere di un avanzamento di carriera, si rivolge anche contro gli uomini quando, in caso di separazione, si presume che l’uomo non sia abile alla cura al pari di una donna.
Abbiamo fatto un’indagine sul tema del congedo di paternità. Gli uomini avevano più giorni ma non li utilizzavano e si giustificavano dicendo che godere di quei giorni di ferie retribuite avrebbe inciso negativamente sul luogo di lavoro per una questione di autorevolezza professionale. Come la società stigmatizza quella donna che pensa alla carriera e trascura i figli, cosi stigmatizza quell’uomo che non risponde alle aspettative sociali di performance professionale ed economica perchè sta a casa ad accudire i figli. Bisogna smontare la gerarchia che esiste ma anche aprire degli spazi nuovi, riconoscendo ad esempio che stare con i propri figli ha un valore anche per gli uomini.
Maddalena Cialdella- AERES Onlus
Come in realtà le donne che si ritrovano a vivere casi di violenza possano uscirne fuori, soprattutto se sono coinvolti dei minori.
È un interrogativo che ci poniamo quando sentiamo queste storie di donne che rimangono intrappolate in questi legami patologici, seppur ricevendo violenze fisiche o psicologiche dagli uomini con cui vivono. Nessuna donna sarebbe cosi masochista da rimanere con un uomo che le usa violenza allora perché ci rimane? Io penso che si creano degli incastri di coppia per cui queste donne che hanno delle caratteristiche di personalità dipendenti rimangono incastrate in questo tipo di legame perverso e patologico perché questa dinamica le tiene legate agli uomini violenti. Poi c’è un’altra caratteristica, la sindrome della crocerossina cioè la tendenza della donna a pensare che può farcela a cambiere quell’uomo, crede di poter andare avanti soprattutto quando ci sono i figli. Cosa dal mio punto di vista ingiusta perché si può rimanere insieme se si ha rispetto, se ci sia ama. La separazione non è di per se negativa, ciò che non funziona è la violenza assistita da parte dei minori dai figli. Questa consapevolezza a volte questa è l’occasione delle donne per sottrarsi alla violenza degli uomini e arrivare alla separazione.
Io penso che siccome la violenza è un tema che ci deve portare a pensare a questo fenomeno in maniera complessa, penso quando mi occupo di affidamento dei minori che le donne da questo punto di vista debbano avere un momento di autocoscienza, perché è vero che le donne che culturalmente sono state sempre disposte alla cura dei figli, ritiene i figli una proprietà e spesso le separazioni altamente conflittuali sono quelle situazioni in cui le madri si oppongono alla frequentazione dei propri figli con i loro padri. Auspico che gli uomini trovino degli spazi adeguati e facciano un bel percorso e ci vuole una rivoluzione culturale ma credo che nel momento in cui dobbiamo pensare a tutelare i figli che assistono, chiedo che donne facciano un mea culpa rispetto a questa cultura di sentire i propri figli proprietà e fare un passo avanti perché i figli di genitori separati possano frequentare e avere le cure necessarie anche dai padri. Tanto è vero che da alcuni anni a questa parte si parla di care leader, cioè colui che offre cure.
Luisa Betti Dakli
Jn casi in cui sia presente si sia verificata una violenza domestica, non è applicabile l’affido condiviso cioè l’affido viene dato al genitore non maltrattante. Questo anche sulla convenzione di Istanbul è molto chiaro.
Distinguerei con molta chiarezza le due cose: l’affido condiviso è un atto di civiltà. Nel momento in cui si sono verificate situazioni di violenza domestica è per legge vietata sia la frequentazione sia l’affido del genitore maltrattante. Questo va chiarito perché sono due ambiti diversi.
Maddalena Cialdella
Tornando al tema principale del perché le donne rimangono al fianco di un uomo violento, c’è un altro tipo di discorso che bisogna fare…perché all’interno della dinamica della violenza c’è un ciclo preciso della violenza che brevemente posso sintetizzare: ci sono le prime due fasi dove c’è l’aggressione e l’esplosione. Quello che ci dà il termometro del fatto che la donna non riesce ad andarsene è comprensibile se si fa riferimento alle altre due fasi, in particolare alla fase delle false scuse. L’uomo si scusa chiede perdono cerca di attribuire le sue malefatte a situazioni esterne o ad atteggiamenti della donna la quale si sente colpevole e anzi si convince che se è riuscita a veicolare degli input per cui l’uomo ha avuto comportamenti violenti può anche agire in senso contrario. Poi c’è la fase luna di miele, in cui l’uomo è docile e tranquillo in cui la donna ha dubbi sul fatto di avere dipinto un uomo in maniera sbagliata. Questo è il momento in cui molte donne ritirano le loro denunce, finchè il ciclo non ricomincia e ricomincia più forte di prima.
Luisa Betti Dakli
Infatti spesso c’è anche una dipendenza economica dunque la donna prima di arrivare alla denuncia supponendo di conoscere quest’uomo e controllare la situazione in maniera erronea perché il 70% dei femminicidi che conosciamo sono casi che seguono ad anni di maltrattamenti. Ma c’è anche la paura di non essere protette dalle Istituzioni.
Simona Lanzoni- Fondazione Pangea Onlus e membro di GREVIO
Perché in queste donne c’è una paura di non essere protette, di non essere seguite?
Le donne non sono tutte madri e sappiamo che le violenze avvengono ad ogni età indipendentemente dal proprio status giuridico. Parliamo di tantissime forme di violenza, anche nell’ambito familiare, che sono state in qualche modo incasellate all’interno della Convenzione di Instanbul. E le Istituzioni dovrebbero recepire a livello nazionale, elaborando delle linee operative. Cosa succede? Succede che le donne molto spesso non si sentono affrancate dal lavoro delle istituzioni perché temono che queste non saranno in grado di prendere in carico la situazione di violenza che stanno vivendo. Per questa ragione molto spesso fanno il primo passo, denunciando, e poi tornano indietro.
Questo rende ancora più difficile recuperare una donna vittima di violenza. Può essere uno stupro, può essere una volenza in famiglia, può essere una situazione di molestie sessuali sul luogo di lavoro: sono tantissime situazioni, e dovrebbero esserci altrettante articolazioni dello Stato che dovrebbero essere pronte a dare delle risposte.
In Italia abbiamo un movimento delle donne che nasce negli anni ‘70 e sono decenni che le associazioni delle donne cercano di fronteggiare questo fenomeno della violenza. Le donne sono arrivate fino a un certo punto, anche gli uomini hanno iniziato un lavoro di elaborazione che però è ancora di nicchia.
Aprire un dialogo con le Istituzioni significa aprire un processo di trasformazione profondo delle Istituzioni. Le Istituzioni sono fatte di persone che hanno problemi culturali, di stereotipi, che dovrebbero sciogliere nodi importanti che potrebbero cambiare la vita di donne, di bambini…spesso si preferisce mantenere lo status quo piuttosto che procedere ad una trasformazione della cultura.
Le Istituzioni di oggi fanno i conti con numeri importanti: stiamo parlando di milioni di donne che vivono situazioni di violenza senza contare tutto il sommerso. È un lavoro molto complesso, molto scomodo, per questo arrivano le Istituzioni internazionali che creano degli standard per orientare e agevolare gli Stati ad allinearsi e seguire una certa direzione.
La Convenzione di Istanbul è stata approvata nel 2013 ed è entrata in vigore nel 2014. Dal 2015 si è avviato questo meccanismo e l’Italia verrà controllata nel 2018.
I movimenti delle donne si sono date molto da fare in questi anni, e si è creato un dialogo forte e importante su questo tema, fino alla richiesta di coinvolgimento di alcune realtà associative nazionali nell’elaborazione di un piano nazionale anti violenza governativo.
Molte associazioni si sono trovate a discutere con il Ministero delle pari opportunità sulle possibili azioni che dovrebbero mettere le mani sulla strategia da applicare. Sono stati sufficienti i piani anti violenza che sono stati fatti finora? Abbiamo un primo piano antiviolenza che risale all’epoca della Carfagna, c’è un secondo piano antiviolenza che risale al 2012. Possiamo dire che erano vicini alla convenzione di Istanbul? No. Possiamo dire che in questo momento c’è un bozza che è stata ulteriormente lavorata in tutto questo tempo dal Ministero pari opportunità, è una bozza di piano strategico che noi abbiamo visionato e sarebbe un grande risultato, soprattutto finanziario perchè mette mano a situazioni che ancora oggi sono nebulose. Ad esempio i CAM quanti sono, come lavorano, che risultati hanno?
Ci sono ad esempio centri antiviolenza che nascono in vario modo. Va fatta una mappatura, è tutta un’evoluzione, sicuramente è molto difficile il lavoro di adeguamento alla Convenzione di Istanbul ma dobbiamo sapere che noi stessi dobbiamo cambiare. Ad esempio il caso di violenza intrafamiliare è una delle questioni più difficili: nel momento in cui c’è un padre violento va allontanato e molto spesso i figli sono utilizzati dai padri separati come strumento per proseguire la violenza anche da lontano. Questa è una cosa su cui bisognerà lavorare ancora molto, perché uno dei modi che l’uomo ha per continuare a ferire le donne sono proprio i figli.
Luisa Betti Dakli
Abbiamo detto che la convenzione di Istanbul è in vigore perché l’Italia l’ha ratificata. Allora perché tutta questa difficoltà del nostro paese ad implementarla?
Simona Lanzoni
Purtroppo non c’è paese che ci riesca. Sicuramente perché c’è molta politica, poca consapevolezza di quanto in fondo non si voglia cambiare. Restituire libertà alle donne che possono uscire dalla violenza, vuol dire trasformare una società e significa trasformare una società e non sapere cosa succederà dopo.
Immaginare una società dove non ci sia violenza tra donne e uomini è davvero difficile.
La Spagna nel 2003 ha deciso che doveva risolvere la questione della violenza sulle donne e nel giro di un anno è cambiato tutto, in tutte le articolazioni dello stato. Alla base c’è una volontà e una decisione politica. Cosa che non è accaduta in Italia. Bisogna investire e bisogna che ci sia la volontà politica, un orientamento chiaro. È un lavoro di responsabilizzazione di ogni operatore – sia esso la Magistratura, la Polizia il Centro anti violenza- e di trasformazione profonda a livello culturale.